C’è un grande assente dal programma dei 100 giorni che il governo ha delineato: l’istruzione. Sono anni che la scuola, l’università e la ricerca vengono letteralmente massacrate. Il governo Berlusconi è stato in grado di tagliare 8 miliardi di euro che, non facciamoci ingannare dall’insopportabile retorica del centro destra in merito, non erano “sprechi”. Dietro quei fondi c’era la scuola. Non “una” scuola, ma “la” scuola così come la nostra Costituzione ce la descrive: pubblica, aperta a tutti, di qualità. Non che non avesse enormi carenze ma, invece di migliorarle, si è deciso di andare in un’altra direzione, seguita anche dal governo Monti e dal ministro Profumo.
Il punto però è il paradosso che emerge dal programma: come si può da un lato affermare che ci saranno norme per favorire l’entrata dei giovani nel mondo del lavoro e dall’altro non nominare neanche la scuola, l’università e la ricerca?
Purtroppo si può. Ma questo vuol dire non aver capito il senso e la portata del problema. Vuol dire ripercorrere nuovamente i passi che hanno portato alla riforma Fornero: grandi promesse sull’affrontare il tema della disoccupazione giovanile che poi si vanno a tradurre in un insensato dibattito sulle regole del mercato del lavoro, per modificare ancora una volta un piano normativo che già prevede ben 46 tipologie contrattuali, non interrogandosi minimamente sul piano della domanda e quindi sull’offerta di lavoro per i giovani.
Abbiamo visto i risultati di quella riforma, che ha cambiato tutto per non cambiare niente: tutte le statistiche dicono che la precarietà è aumentata e che non si è creato un solo posto di lavoro in più.
E’ evidente che questa è una scappatoia per non affrontare il problema. Se veramente si vuole parlare di occupazione giovanile senza illudere quel 38% di giovani inoccupati, quei 2 milioni di Neet, basterebbe fare tre cose, per iniziare:
Eliminare le 46 forme di contratti precari e ragionare di flessibilità e non di precarietà, quindi non livellare il lavoro sul piano dei diritti. I diritti devono essere un patrimonio del singolo lavoratore e della singola lavoratrice, non vincolati al tipo di contratto che gli viene proposto.
Modificare il sistema di welfare del nostro Paese, attivando forme di sostegno per creare una continuità di reddito che permetta di non progettare la propria vita in base alla scadenza dei contratti, di non essere ricattabili, di non dover sempre e per sempre dipendere dalla propria famiglia, quando questo è possibile.
Investire sul scuola università e ricerca. Innalzare l’obbligo scolastico a 18 anni. Rimettere in modo l’economia partendo da un ripensamento delle parole “crescita” e “sviluppo”. Investire sulla qualità del lavoro, creare una competitività positiva. Come è possibile tutto questo con un tasso di dispersione scolastica come quello italiano e facendo fuggire tutti i nostri cervelli migliori all’estero?
I giovani del nostro Paese non si meritano ulteriori insulti. Esigono risposte, serie.